Da Panturro a Pan cuott

I racconti di CESARE ZEZZA, dal libro MOMENTI (1994) di Cesidio delle Donne

PANTURRO

Cesare Zezza (1916-1998)

Ricordo la sua figura, si chiamava Felice. In paese lo chiamavano Panturro questo nomignolo, forse gli venne attribuito in virtù del suo comportamento. A quei tempi si dava a coloro i quali dimostravano una certa baldanza. Parlava con voce rauca. Aveva un aspetto tutto personale. I lunghi anni avevano incurvato le spalle. La sua statura non superava il metro e sessanta. Camminava lento e a testa bassa, forse a causa degli zoccoli di legno che calzava da lui stesso costruiti. Si appoggiava ad un lungo bastone alla cui estremità dondolava un piccolo pezzo di stoffa dai vari colori con avvolto il quotidiano Ticchio di pizza d grandign. Vestiva una lunga giacca, i molteplici rattoppi ne aumentavano il peso. Abitava in una casetta, sita in via Ortaglie, al pian terreno, costituita da due piccoli vani. La porta veniva chiusa con un Purtillo lasciando uno spiraglio di luce necessaria per illuminare la cucina.

Il vano adibito a cucina dava la sensazione di entrare in una grotta. Ad un angolo appariva il camino con una grande cappa. La legna ardeva sempre. In una parete si notava la famosa tavola a Pet attaccata al muro. Si distaccava e veniva adibita come tavolo. Su questa tavola si passava la farina allo staccio necessaria per la confezione della sagna di qualche piccola pagnotta che veniva cotta sotto la cenera.

Quest’uomo viveva immerso nella solitidine con la quale divideva i suoi problemi. Non di rado borbottava qualche frase nel senso più dialettale dell’epoca. Come preparava la sua cena non è difficile dimostrarlo. Tutte le sere, con farina di granoni, preparava una pizza d grandign di facile impasto e di cottura. La farina veniva impastata con acqua fredda ed un pizzico di sale. Con una piccola Palella (di ferro battuto) si toglieva la cenere dal focolare si soffiava con il Zufflatur in modo che la cenere non aderiva alla pizza e poi si copriva con una coppa di ferro ricoprendola di cenere e bracia. Per la cottura occorreva un’ora. La cena era costituita da un Ticchio di Pizza d grandign e qualche patata cotta sotto la cenere. Alle volte la pizza e le patate venivano sostituite con un piatto di sagne e fasciol.

Il Panturro usciva al mattino per recarsi alla estremità del paese dove in un locale appositivamente recintato, si radunavano capre, pecore, etc. che lui avviava al pascolo. Al ritorno, a tarda sera, passava lunghe ore seduto su di un pezzo di legno Prstill con gli occhi socchiusi sbricciolava il rituale Tichio di pizza bevendo qualche sorso d’acqua attinta alla Conca con il famoso Manier dal lungo manico di rame. Terminata la cena prendeva da una piccola scatoletta un pizzico di rimasuglio di tabacco fra l’indice ed il pollice aspirandolo con le narici (Tabacc da nuos).Il suo letto: due trispi di ferro collegati con tavole, un leggero materasso riempito di foglie di granone essiccate. Qualche coperta ed una luce a petrolio che luccicava appesa ad una trave del soffitto.


 
PAPUSCILL

Nella stessa via Ortaglie abitava un piccolo uomo di nome Michele soprannominato Papuscill. Magro, gracile di salute. La sua casa non era più confortabile di quella del suo vicino. Michele camminava strisciando le vecchie ciabatte, i pantaloni sorretti da due larghe bretelle, sdruciti coprivano le scarpe. Portava un piccolo cappello nero legato con un fazzoletto attorno al mento. Questa legatura veniva praticata da quasi tutti i vecchi per tema che il cappello venisse portato via dal vento.

Papuscill passava la sua giornata facendo qualche piccolo servizio alle famiglie del vicinato Rione Case Rotte. Lo retribuivano con un pò di farina e qualche uovo.Tutte le sere andava in chiesa per recitare il rosario e la litania dei Santi. Aveva qualche pezzetto di terreno dove praticava la semina del grano, patate e cereali. Con lui abitava la madre Za Flmena. Aveva un figlio che morì durante la prima guerra mondiale, marito di Angela Dea. La moglie dei piccolo Papuscill non usciva di casa, ci vedeva poco ed era sempre coperta da uno scialle sulla testa. La si vedeva, qualche volta, accompagnata da qualche donna del vicinato solo al mattino per andare a Messa.

Nei primi del mese di novembre il piccolo e modestissimo Papuscill, munito di un piccolo Crocifisso faceva, tutte le sere, il giro per il paese. Si fermava in ogni crocevia e ripeteva la rituale litania (una specie di poesia): « Ogni sera sia lodata la Regina del Cielo Immacolata… oggi in figura e domani in sepoltura… Beato quel corpo che… » la voce gli si abbassava, l’ultima parola diventava poco più di un soffio quasi impercettibile.Lo guardavamo, il suo sguardo si perdeva nel vuoto e continuava a mormorare qualche frase.Questo giro che faceva per il paese era un gesto volontario per lui e per il popolo recitando le belle parole. Tutti lo lodavano. Lo ricompensavano con qualche fetta di pane o altro.

Come per istinto, quando passava per Via Roma, si fermava sotto la casa di Za Angela d R Pnciar la quale gli offriva sempre un bicchiere di vino e qualche altra cosetta che il Michele riportava a Za Flmena.Non è facile trovare l’origine del nomignolo Papuscill. Le sue radici affondano nel lontano passato. I quotidiani problemi della vita non esistevano. Non aveva vizi. La solitudine prendeva posto. È comprensibile considerando i tempi in cui viveva.


 
FLMENA LA CIRICINA

Lasciando via Ortaglie si scende per Via Vittorio Emanuele. Gli abitanti dell’epoca ignoravano questo nome. Per loro era molto più facile il nome di: Case Rotte. Non si capisce l’origine del nome succitato.In una casetta a piano terra viveva una piccola donna di nome Flmena ma tutti la chiamavamo La Ciricina anche questo strano nome è di origine adamitica.

Aveva una statura molto bassa, una corporatura grassa. Passava le sue giornate, quando il sole lo permetteva, in località Scosse dove aveva due piccoli appezzamenti di terreno, in uno praticava la semina del grano e nell’altro: patate, granone, fagioli. Questa povera donna rimaneva tutto il giorno nel suo piccolo terreno. Si aveva la sensazione che questa aspettasse la crescita dei semi che a suo tempo aveva seminato. Aveva una piccola capanna dentro la quale si riparava dal caldo e dalla pioggia. Da sola provvedeva a tutto il lavoro necessario per la semina e per il raccolto.

In luglio provvedeva alla mietitura del grano, lo faceva bene essiccare e poi lo passava sopra una pietra larga in modo da separare il grano dalla paglia, durante la giornata faceva cuocere qualche patata al fuoco accompagnandola con un Ticchio di pizza d grandign cotta la sera precedente. In settembre provvedeva al raccolto delle poche patate che rimanevano, le riportava a casa da sola. Tutte le sere le metteva dentro un canestro che poneva in testa e prendeva la via del ritorno.


 
ZARAFIN D’ PTRALLENT

Sempre in via Case Rotte abitavano due fratelli ed una sorella. Il primo Zarafin d Ptrallent, l’altro …… la sorella Maria. Zarafin era il più abile, la sorella era sempre malata, l’altro non usciva quasi mai. Dimoravano in una casetta alla quale ci si accedeva per mezzo di una scala esterna. Vivevano in un solo vano. Nero per natura. Il fuoco, il fumo, avevano ricoperto le mura con uno strato di fuligine. Avevano un piccolo giaciglio in un angolo, qualche coperta. Zarafin usciva ogni giorno per recarsi al bosco per fare il suo fascio di legna. Borbottava a modo suo, il più delle volte era molto difficile comprenderlo.

Quando rientrava a casa, sempre a tarda sera, metteva la metà del fascio sul fuoco pronunciando la sua rituale frase alla sorella che lo rimproverava per aver messo molta legna sul fuoco: « Azzanott… azzajuorn…afin a sciarell… » (voleva dira: ha fatto notte farà giorno e Zerafin va al bosco e farà un altro fascio) (Fusciariell). Passavano la notte accanto alla fiamma ardente che consumava il lavoro di una giornata del povero Zarafin.

Spesso si guardavano senza pronunciare parola, non sapevano d’altronde cosa raccontarsi. A volte manifestavano una stanchezza fisica derivante soprattutto dalla mancanza di cibo. In particolare nei mesi invernali non uscivano mai di casa. Le famiglie del rione gli portavano qualche piatto di polenta calda per farli contenti.Le loro necessità non le manifestavano nemmeno a coloro che conoscevano a fondo, ed un giorno o di notte rimasero vittime e morirono accanto al fuoco. Rimase solo il povero Zerafin il quale si trasferì in un’altra casetta poco distante e propriamente in una stradetta che accede al Colle della Lama.


 
LA CALDORA

Risalendo per il Colle della Lama si arriva in un Vicolo di Via Chiesa Vecchia e precisamente detto R Curr Tur questo vicolo non aveva uscita, era costituito da molte casette antiche nelle quali vivevano moltissime famiglie. Molti vecchi e vecchi di avanzata età. Tra questi una donna La Caldora (come si chiamava?…). Molto bassa e grassa, vestiva sempre con una lunga gonna nera e Mandera, sulla testa il comune Maccatur con due pizzi ripiegati e legati. Questa donna aveva come attrazione la rimpagliatura delle sedia. Spesso la si notava in giro per il paese con una sedia sotto il braccio ed in testa alcune corone di paglia intrecciata gridando: « Chi vo r crull p la Conca…« .


 
ANGELA D’ MARTILL

E che dire di Angela d Martill? Anche questo essere umano non disturbava una mosca. Viveva in Via Sotto la Terra (ribattezzata nel dopo guerra in Via della Pazienza). Passava le sue giornate seduta sulla soglia della porta di casa. Ogni giorno andava alla fontana per riempire la sua caraffa d’acqua (R trufl…). Non di rado faceva un giro per le campagne per racimolare qualche frasca secca e la riportava a casa. Viveva con l’elemosina del vicinato.


 

FURTNAT

L’uomo che più merita il ricordo è Furtnat (di nome). Questo essere umano era dotato di un carattere strettamente personale, odiava il lavoro. Lo coltivava, alle volte, per necessità ma non lo riteneva necessario. Il suo comportamento era di facile intuizione: voleva mangiare poco… per lavorare meno… Alle volte per un semplice sforzo abbandonava ogni cosa e scompariva. Un proverbio dice: S fatt come Furtnat. La sua zona preferita era Piazza dei Caduti. Come allogio: la notte la passava da Z Mngarella d Lborio. Dormiva accanto ad una cassa coprendosi con una piccola mantellina nera. Amava accompagnare i morti al cimitero. Si vestiva da fratello. Portava sempre la Croce pronunciando sempre le stese frasi che aveva imparato a memoria.


 

ZA COLETTA LA FURNARA

Za Coletta gestiva un forno sito in un angolo di un vano al primo piano della casa di abitazione sita in Via Roma. Quasi tutti i giorni i santangiolesi se ne servivano per la cottura del pane necessario in famiglia. Il forno veniva alimentato a legna. A turno, Za Coletta, disponeva il numero delle famiglie che dovevano fare il pane, il giorno, l’ora.

Di buon mattino Za Coletta accendeva il forno e poi quando tutto era pronto (verso le due del mattino) faceva il giro per il paese gridando sotto la finestra della famiglia che doveva fare il pane: « Fa l Cacchiarell… » (voleva dire di impastare la farina). Verso l’alba ripeteva il giro gridando ancora: « Mcchela… Anglella… facet r paniell…« . Il pane impastato diviso in pagnotte di circa due chili e poste l’una accanto all’altra su di una « Mesa » avvolte con un Mandil d lana per tenere le pagnotte ben calde.

Terminata questa operazione la donna si metteva la « Mesa » in testa e la portava al forno. Dopo qualche ora (Za Coletta dava l’orario) le donne ritornavano al forno per sfornare il loro pane. Spesso per la strada di ritorno, si sentiva una voce ignota… « Abbast n poc c aia pglie na mglica d pan« . Questo lavoro si ripeteva ogni giorno e ogni notte. La donna che doveva fare il pane si recava da Za Coletta a domandare se poteva mettere il lievito e se questa non aveva raggiunto il numero delle famiglie diceva di sì altrimenti doveva accontentarsi del secondo o terzo turno.
 

MARIETTA

Alla domenica di buon mattino e precisamente dopo la Messa celebrata nella Chiesa della Madonna del Carmine, una donna con un canestro sulla testa faceva il giro di tutto il paese gridando: « Carmela… Adelina… Camilla… vulet fa l ben alla Madonna…? » da ogni porta di casa usciva una donna ed offriva qualche liretta oppure un pò di grano. Non di rado si sentiva una voce gridare… « Naltra volta Marietta« , voleva dire che in quel momento non poteva offrire nulla.
 

PAN CUOTT

Fra i tanti si ricorda anche il simpatico Pietro soprannominato Pan cuott… il quale si era innamorato di una bella signorina di nome Modestina. Dopo qualche anno di fidanzamento il povero Pan cuott dovette partire per fare il soldato. Giunto al suo regimento volle cercare di compilare una lettera alla sua amorosa.La lettera iniziava: alla data invece di scrivere 10 aprile fece: 01 aprile: Mai cara carissima Modesina io stengo bene e tu stai bene, la vita militare mi piace ma sono triste perchè non passo sotto la finestra a fare la serenata alla mia amata Modesina… a questo punto la pagina terminava e Pan cuott scriveva: volota… (voleva dire di girare la pagina).

Continuando la sua lettera scriveva tra l’altro: cara carissima se non mi congeleranno io mi ammanzero (se non mi congedano mi ammazzero). Salutami tu madre, tuo padre, tua sorella e tutto il vicinato ed in ultimo salutatevi anche voi… Questo bravo Pan cuott faceva anche da banditore ed una volta, dopo aver sonato tre squilli di tromba disse: « Chi avesse trovato un uoino izzo…« .